BENEDETTA
Benedetta e la sua compagna di cella sono in branda. Abbracciate. La compagna dorme. Benedetta è sveglia. Alle sette del mattino la sua compagna amante sarà scarcerata. Questa è l’ultima notte che trascorrono insieme. Benedetta, illuminata dalla notte che nasconde a chi guarda il luogo dove si trova, sussurra la sua esistenza come se stesse recitando una ninna nanna. Sussurra la sua favola nera alla donna che le dorme accanto e ai fantasmi che l’accompagnano da quando vide per la prima volta un morto ammazzato. Uno zio di suo marito. Lo fa per non lasciarsi travolgere dal pianto. Lei non deve piangere. Non c’è da essere tristi, ma felici quando una detenuta, tanto più se amata, finisce di scontare la sua pena e torna libera. La sussurra perché ai morti si parla a voce bassa. La sussurra per non svegliare la sua compagna e farsi compatire. Lei, moglie di un ergastolano, vedova bianca, madre di due figli, giovanissima nonna, si è innamorata della donna che le dorme accanto perché per la prima volta in vita sua si è sentita capita e accolta e non per essere compatita. Il racconto di Benedetta è una danza sul bordo di un pozzo. Un equilibrio precario. Una resistenza. Una lotta per non precipitare nell’incubo. Le sue parole sono corpo. Dicono quella che è. Quella che è diventata. In esse non c’è nessuna giustificazione. Nessuna assoluzione. Nessun lamento. Ma solo la consapevolezza di aver vissuto, nonostante i crimini subiti e provocati, aspettando sempre che le venisse fatto del bene e mai del male e per questo è sacra. Durante il racconto si alza dal letto. Si versa un caffè. Si siede nel letto accanto e guarda la sua compagna che si agita nel sonno. Ritorna a sdraiarsi vicino alla sua amante. L’accarezza. La tocca. La bacia con malinconia. Con tenerezza. Mentre la narrazione procede, la notte lentamente si solleva, lasciando il posto ai primi bagliori della luce del mattino. Chi guarda ora vede il luogo dove si trova. Con il subentrare della luce solare aumenta la tensione. Il momento della separazione si avvicina con la luce. La sua compagna si sveglia. Il suo stato d’animo è lo specchio rovesciato di Benedetta. Si prepara per uscire. Non riesce a contenere la felicità. Benedetta fa ricorso a tutta la sua forza per non implorarla di non lasciarla sola. E mentre la sua compagna sta per uscire, accompagnata dal rito indiavolato della “Battitura” fatto dalle compagne di sezione e dalla stessa Benedetta, le mura della cella retrocedono verso le rispettive quinte e fondo scena, facendo apparire il teatro nudo. Nel teatro nudo Benedetta racconta come ha attraversato il dolore della separazione e come la vita l’abbia obbligata a prendersi cura di altri dolori, compreso un dolore alla spalla che non le permette di sollevare le braccia. Benedetta, in attesa che le radiografie le diano il verdetto, invoca i morti affinché le dicano la verità. È dai morti che si attende il bene. «Nonna nonna bella mia, tu che sei nel mondo della verità, dimmi la verità, ho un tumore oppure no?». Ma non è mia nonna a venire. Non c’è mia nonna sospesa nell’aria. Ci sono io sospesa nell’aria fuori dalle sbarre. Sono seduta come se avessi sotto il culo una sedia, ma non ho niente. Indosso il vestito rosso comprato dai cinesi e rido, sono io, proprio io, e rido, mentre la me che è in cella si aggrappa alle sbarre e si mette a urlare «vattene via zoccola, vattene via bucchinara di merda, non c’è un cazzo da ridere, tu non sei Benedetta. Vattene via. Io non sono morta, io non sono morta, vattene via, vattene via. Io voglio vivere, vivere, non c’è un cazzo da ridere, io voglio vivere». E con quest’urlo, «io voglio vivere», termina la pièce.