LA PUTTANA DELL'OHIO
Sinossi
Nessuno l’ha mai vista. Si dice che trascorra le giornate a galoppare nel parco della sua grande villa, le lunghe gambe sinuose premute sui fianchi del suo candido purosangue. Inutile avvicinarsi, l’enorme portiere nero che sta al cancello non vi farà passare. È la puttana dell’Ohio, mitologica creatura che alimenta i sogni e le fantasie dei tre protagonisti di questa amara e sgangherata commedia di Hanoch Levin, un padre, un figlio e una puttana vera: tre uomini alla deriva su una barca che fa acqua da tutte le parti, inesorabilmente risucchiata dal gorgo del tempo, a gridarci in faccia il loro disperato e tragicomico fallimento. E se lo scopo dichiarato dell’improbabile convegno è quello di provare a riportare in vita, con tutta la professionalità del caso, l’arnese in disarmo che si acquatta fra le gambe del vecchio, a prendere vita è invece, da subito, un vorticoso, inarrestabile fiume di parole in cui si intrecciano rimpianti, rinfacci e inascoltate invocazioni per ridere e piangere insieme di queste nostre vite piccoline. Consapevoli che, come dichiara amaramente il vecchio Hoimar, un uomo vive e muore, e le puttane dell’Ohio nemmeno lo sanno. Eppure, malgrado tutto, ancora così bisognosi di crederci.
Note di regia:
Il vecchio Hoibitter non ha niente, tranne un sogno e un paio di mutande. Ad alimentare il suo sogno, la creatura mitologica del titolo: la puttana dell’Ohio, che vive in una grande villa circondata da un immenso parco in fiore, cavalca un purosangue nel suo bosco privato, non vuole soldi e non ha bisogno di clienti. Nelle mutande giace invece, irrevocabilmente morta, la creatura che si vorrebbe riportare in vita, foss’anche per qualche breve istante, in vista magari di una rinfrancante irruzione in quel paradisiaco Ohio: impossibile lotta contro il tempo in cui si dibatte, da pari a pari, anche il culo di Brontsatski, la più prosaica prostituta che sta appunto sulla stessa barca di Hoibitter, che vive nel suo stesso mondo, schifoso ma piacevolmente familiare, e con cui il vecchio vorrebbe concedersi, possibilmente senza spendere, un improbabile regalo di compleanno. Ma se le cose per il vecchio non vanno per il verso giusto, perché è im-possibile che lo facciano, alla festa si può sempre far partecipare Hoimar, terzo elemento della sgangherata orchestrina, barbone pure lui, figlio ed ereditiere del nulla: e in attesa che qualcosa dentro quelle mutande dia segno o illusione di vita, brutalmente investirlo dei propri fallimenti e delle proprie utopie in un serrato e inesorabile confronto generazionale che è il vero nucleo di questa amara commedia, dove l’irresistibile comicità delle situazioni sembra inevitabilmente destinata a planare nei territori di un allucinato, metaforico lirismo, regno indisturbato della puttana del titolo, che per l’appunto ti lascia fuori dal cancello per tre minuti a guardare la sua cassetta della posta e sbirciare la terra promessa prima che l’enorme portiere nero ti afferri per il colletto e ti getti via come un vecchio straccio. La puttana dell’Ohio è anche un’opera sulla potenza dell’immaginazione e dunque, indirettamente, una riflessione sulla letteratura come opportunità di riscatto, luogo degli impossibili accadimenti e proprio per questo vitale terreno di coltura per canoniche e non canoniche fantasie: pur nella consapevolezza che, come dichiara amaramente il protagonista, un uomo vive e muore, e le puttane dell’Ohio nemmeno lo sanno. Hanoch Levin, prolifico drammaturgo israeliano forse ancora troppo poco frequentato sui nostri palcoscenici. Con questo testo magistralmente scritto ma tutt’altro che comodo, pervaso da un trascinante umorismo che, a dispetto dell’argomento pruriginoso, non lascia mai spazio alla minima volgarità, ci offre uno di quei racconti di passione e dolore che, come tessere di un mosaico, vanno a comporre il quadro di un’opera ricchissima e straordinariamente originale. Un lavoro sempre provocatorio ma senza il piacere della provocazione, comico senza ammiccamenti, drammatico senza affettazioni, dove ogni lacrima e ogni risata ci restituiscono semplicemente qualcosa di noi stessi: squarci del nostro comico e imperscrutabile dolore.